Ecco! Ancora una volta le vacanze sono finite per davvero. Ci tocca sopportare un po’ di giorni residui di caldo e zanzare e poi la polo ritorna nel cassetto e ci si rimette la cravatta. Non ci crederete, ma a pensarci provo ancora, a distanza di tanti anni, quella stessa sensazione di malinconia profonda che mi prendeva alla domenica sera dell’ultimo giorno di ferie, quando alla Domenica Sportiva finivano i servizi sulle partite del campionato appena iniziato e iniziavano quelli sull’ippica spalancandomi la finestra sul baratro del ritorno a Torino. Anche perché alla frustrazione di ricominciare di nuovo la vita del pendolare si aggiungeva il supplizio di dover trascorrere almeno le prime due settimane ad ascoltare con aria compiaciuta sempre gli stessi immutabili resoconti delle mirabolanti vacanze di colleghi e colleghe reduci dai vari villaggi vacanza con animatore simpaticissimo e acquagym, posti esotici improbabili scovati con il last minute, scottature da sole himalayano o da Sharm (lo El Sheikh tra la gente di mondo si dà per sottinteso), bambini guastavacanze con la tonsillite proprio il giorno prima di partire, grigliate pantagrueliche su spiaggia greca con l’Ouzo e la Retsina a garganella e il bagno nudi a mezzanotte con la medusa che ti prende proprio lì (mio pensiero grato alla piccola vendicatrice), l’incontro ravvicinato con lo squalo (che probabilmente era un tonno) facendo snorkeling a Pantelleria e le gite in barca con il mare mosso attorno a Panarea spacciate come il periplo di Cape Horn. Tralascio quella mia collega che per cinque anni di fila mi ha raccontato come in Oman cuociano l'agnello dentro la sabbia e quell'altra che, penso per competenza territoriale trattandosi di ex possedimenti veneziani, mi ha stressato per mesi con il riccio che in Istria l'aveva mandata al pronto soccorso con il piede trafitto dagli aculei, neanche l'avessi messo io... (però mi sarebbe piaciuto).
Quando finalmente mi veniva chiesto “E lei, dov’è stato di bello?” ero costretto ad ammettere che per l’ennesima volta avevo trascorso le ferie a Nötsch im Gailtal, un minuscolo e sconosciuto paesino tra le colline e i laghi della Carinzia, immerso tra i frutteti e i campi di grano, appena dopo il confine, a solo due ore di auto da casa. Dunque, anche se mi affannavo a dire che era l’ideale per il bambino che si divertiva un mondo in mezzo alla natura incontaminata delle valli austriache e poi costava poco, venivo guardato con stupore unito al sospetto perché si capiva lontano un miglio che per trascorrere le ferie in un posto così poco originale e "trendy" dovevo nascondere qualcosa d'inconfessabile.
Il monte Dolada infiocchettato di nuvole |
Per questo, considerato che delle nostre vacanze montane vi avevo già raccontato l’anno scorso quando la meta era ancora inedita anche per noi, invece di tediarvi con il resoconto del nostro ritorno a Tambre d’Alpago, delle nostre passeggiate con il bretone e dell’eccellente stinco di maiale, del formaggio fritto, dei cassunzèi e del capriolo con la polenta cucinati con maestria dal cuoco del nostro piccolo albergo a conduzione familiare, ho deciso di limitarmi a postare qualcuna delle tante foto che ho scattato in quei giorni e di proporvi, invece, un bel tuffo nel passato, raccontando com'erano le "vere" vacanze di una volta, quelle che si facevano quando ero ragazzino e che sembravano davvero non finire mai. Perché a volte penso che il tempo scorra con un’inversa velocità a seconda delle stagioni della vita. Quando sei piccolo il tempo è qualcosa di maestoso, come un fiume alla foce, con l’acqua quasi ferma. Invecchiando (e lavorando) gli anni scorrono con la velocità di un ruscelletto di montagna, come quello qui sotto. Di ferie in ferie, di settimana in settimana, ti ritrovi all'anno seguente e non sai neppure come. Non ho fatto tempo a riavermi dallo shock di aver compiuto i cinquanta che erano già arrivati i sessanta…
Chiare, fresche (anzi, gelide) dolci acque... |
Le mie estati da adolescente erano suddivise in due fasi ben distinte. Il mese di giugno lo si passava ad annoiarsi in spiaggia al Lido perché il medico di famiglia, spiegando alla nonna che mi ospitava (mia madre seguiva mio padre da una base navale all'altra e io ero parcheggiato nella casa veneziana dei nonni per via della scuola) i motivi della mia scarsa concentrazione negli studi, aveva sentenziato che ero linfatico e che l’aria iodata sarebbe stata per me un vero toccasana. Dunque mi veniva impartito l'obbligo di esposizione al sole sul bagnasciuga per respirare l’aria marina a pieni polmoni. Quando il medico, dopo aver curato quelle brutte scottature da sole, sentenziò che ero anemico mi ritrovai ben presto in una tempesta di bistecche al sangue, mentre dopo la frattura esposta della gamba che mi ero procurato sciando fui condannato ad essere ingozzato di verza cruda a pranzo e a cena per il fatto che, secondo quel luminare della medicina, il maledetto vegetale era ricco di sostanze atte a favorire la calcificazione. Quell’uomo tanto prodigo di consigli e quella nonna così apprensiva per il mio pallore adolescenziale non mi risparmiarono neppure l’olio di fegato di merluzzo e il cucchiaio da minestra di ricostituente "Proton" da trangugiare prima di andare a scuola. Mi consolo pensando che se il nostro medico avesse sentenziato che ero stitico, sarei probabilmente affogato nei clisteri.
L'Alpago: prati e cieli azzurri... |
Dal primo di luglio e fino all’inizio di settembre, scattava la seconda fase: quella delle vacanze montane a Moena, in Val di Fassa. Al tempo prendevamo in affitto ogni anno la casa di un certo Angelo Sommavilla, che mia madre contattava grazie al vicino albergo Rosengarten perché come la maggior parte dei valligiani di allora non aveva il telefono in casa. Questi era un rude montanaro che mio papà chiamava "Grande Capo Cavallo Basso" perché portava in testa un cappellaccio di feltro adorno di una lunga piuma di gallo cedrone e indossava perennemente dei vecchi calzonacci tirolesi con il cavallo all’altezza delle ginocchia. La casa, anche se piuttosto spartana negli arredi, era molto bella e piena di luce perché si trovava appartata sopra una piccola collinetta, da cui dominava gran parte del paese ed era circondata dai prati che costeggiavano la strada sterrata che portava verso la frazione di Sorte e il Sass da Ciamp.
I primi giorni nella casa di montagna erano vissuti nel disagio più totale nell’attesa ansiosa del fatidico arrivo del baule. A pensarci bene, i bauli sono stati una costante della mia gioventù.
Nei bauli, quelli grandi di una volta, di legno verde scuro, foderati di carta da parati e con le borchie d’oro, ci stava una casa intera. Una volta, quando le famiglie partivano per la villeggiatura in montagna si effettuavano delle vere transumanze, con tutte le vicissitudini di un trasloco e il baule ne diventava il protagonista assoluto. Questi, infatti, viaggiava in treno per suo conto, prendendosela comoda e, di solito, nel giro di una settimana dalla spedizione arrivava ad Ora o in quel di Mezzocorona (via Trento) oppure a Calalzo (via Cadore). Occorreva indovinare. Bisognava poi trovare il volonteroso con il motofurgone (il prescelto era quasi sempre il fruttivendolo...) che ci accompagnasse al ritiro alla stazione delle autocorriere. Alla fine dell'impresa (perché tale era...) dall’enorme baule saltavano fuori, come da un inesauribile bazar, le agognate coperte, la borsa dell’acqua calda, la caffettiera, i piatti, le pentole… e la vita poteva riprendere la sua normalità. Tra le calamità estive (vipere, zanzare, colpi di sole...) emergevano dal baule, quasi sempre per mano della zia, anche i minacciosi compiti delle vacanze. Essi venivano regolarmente da me dimenticati inevasi in qualche cassetto il giorno della partenza.
Verso la malga al Pian Formosa |
Tornando ai miei anni spensierati da ragazzino, Moena incarnava il concetto stesso delle vacanze. Che si aprivano ufficialmente con la cerimonia dell’acquisto delle pedule e della piccozza alla Famiglia Cooperativa (regolarmente si piantava la grana per avere anche la borraccia e il coltellino con lo scoiattolo sul manico, ma con scarsi risultati...). La prima gita era tradizionalmente dedicata alla malga Roncac, con mio fratello Franco, la mamma e la nonna (che indossava le scarpe da città, con il mezzo tacco...) a scarpinare quaranta minuti in ripida salita per mangiare la panna con i lamponi. Il giorno dopo si stava tutti a letto, sotto i piumini, con le gambe indolenzite (e la nonna anche con le caviglie gonfie…). Nei giorni seguenti, finalmente, cominciavano ad arrivare alla spicciolata le famiglie degli altri villeggianti con relativi figli (e l’agognata ragazzina milanese per la quale ti eri preso la cotta l’anno precedente, ma che anche quest’anno non ti filava) e cominciava la stagione dei giochi a perdifiato. Poi, dopo tanti giorni di solleone, di gite per rifugi, di uscite per andare a funghi e infinite polverose partite di calcio, un giorno ti accorgevi che i temporali cominciavano a diventare più frequenti, l’aria diventava tersa e fresca (di sera occorreva il maglioncino...) e qualche cima s’infiocchettava di neve. Cominciavi a vedere passare tante macchine con il tetto ricolmo di valigie, gli alberghi si svuotavano degli amici e in quel clima di smobilitazione diventava sempre più difficile colmare gli organici delle squadre di calcio. Allora subentrava una malinconica attesa del rientro i cui sintomi erano dati dal riempirsi del baule e dalla progressiva sparizione al suo interno delle pedule, dello zaino, del bastone e della borsa d'acqua calda della nonna. Quando sparivano le scarpe da calcio, era proprio finita e di lì a poco si sarebbe tornati a scuola.
Uno sguardo lontano....dal Pian de le lastre |
Papà e mamma erano dei grandi e appassionati camminatori (mia madre da ragazza aveva fatto anche roccia con impegno e aveva smesso solo perché una pietra staccatasi dalla parete del Sassòngher le aveva spezzato male una caviglia che non era più guarita del tutto). In quegli anni abbiamo girato tutto il Catinaccio, il Sassolungo, il Sella e dintorni in lungo e in largo e diverso tempo dopo, appena ho avuto l'età per farla, abbiamo affrontato pure qualche ferrata, come il Santner e la nord dell'Antermoia (che un po' di fifa in qualche punto te la dava). Io avevo una bellissima piccozza da montagna (che poi ho perduto con gran dolore) di quelle vere, non come quelle da bambino che al primo colpo su un sasso si spezzava la punta e in ogni rifugio conquistato papà mi comperava la targhetta di metallo da applicarci sopra a testimonianza dell’impresa. La mia piccozza luccicava con almeno trenta targhette argentate e due smaltate a colori. E così, fin da bambino, ho imparato ad inebriarmi di vette azzurrine a perdita d’occhio e ad amare il silenzio delle alte quote, rotto solo dal vento che ogni tanto fischia attraverso qualche forcella o dallo scampanio delle mucche in fondovalle. E dal gorgogliare dei ruscelletti che sgorgano da sotto le macchie di neve scintillante. Con quell'acqua fredda come una lama, da bere a piccoli sorsi per placare la gola riarsa dallo sforzo della salita.
Oggi, invece, a tornare da quelle parti m’ innervosisco (il termine esatto è un altro, ma non vorrei sembrare volgare). I luoghi magici delle mie estati da adolescente si sono, infatti, tramutati da tempo in veri e propri divertimentifìci, copiando il peggio delle spiagge romagnole. I paesi, infatti, si vanno riempiendo sempre di più di sale giochi, pizzerie, paninoteche, birroteche, videoteche, discoteche e bischeroteche varie. Non so se da qualche parte siano già approdati i doppi cheeseburger con ketchup e patatine fritte, i kebab o le piadine con il culatello e lo squacquerone, ma credo si tratti solo di una questione di tempo. E, comunque, già fin d’ora, in qualche malga o rifugio a far compagnia alla polenta con i finferli e ai canederli si trovano gli spaghetti alla carbonara o le linguine all’amatriciana. Quando non la pizza al taglio.
Luci lungo il sentiero "del cervo" |
Una volta, passando per le viuzze strette tra le case avvertivi l’odore del legno, delle stalle e dei fienili, oggi per trovare una vera vacca (invito a non fare pensieri maliziosi...) devi andare quanto meno sugli alpeggi a duemila metri. Al posto delle modeste botteghette di generi misti (il mitico negozio di gemistenwahrenhandlung da pronunciare tutto in un fiato...) piene di tutte le vecchie carabattole introvabili in città sono spuntati come funghi rutilanti negozi d’articoli sportivi, jeanserie e boutique. Dunque non vi è più traccia di quelle preziose delikatessen come le croccanti rosette con il salame affumicato e il cetriolo sottaceto che ti preparavano per le gite al negozio di alimentari, gli scartocci di castagne secche da sgranocchiare per la strada o la spuma frizzante di mele del Bar Catinaccio e la ciotolina con la panna montata (vera, non spray) con le fragoline di bosco, i lamponi e i mirtilli che ti servivano alla malga Roncac. E non so più nulla della torta di nocciole alta un palmo della malga Alloch a Pozza (dovrò verificare..).
Per le strade, al posto delle famigliole di quieti villeggianti in pedule, camicie a quadrettoni e calzoni di fustagno, circolano oggi, in un perenne struscio da via Bafile di Jesolo, bulletti e bullette su Golf GTI nere con le portiere che si gonfiano a ritmo di rap o disco-dance e mostruosi fuoristrada magnum con le quattro ruote motrici che servono ai proprietari unicamente per parcheggiare meglio sopra i marciapiedi. Per i sentieri di montagna, invece dei "Grüss Gott" bisbigliati con un rapido cenno di saluto quando s’incrociava qualche altro escursionista e dove regnava sovrano il silenzio oggi senti berciare decine di persone che si chiamano e gridano per ogni fesseria.
Che bello quando l'unico rumore che si sente nell'aria è il volo delle api... |
In tutti questi anni, poi, gli abitanti locali ci hanno messo del loro perché per compiacere il turismo di massa hanno sconciato di buona lena boschi e montagne per piazzare impianti di risalita e funivie dappertutto, consentendo a chiunque di arrivare in men che non si dica in posti prima accessibili solo a gente esperta. Per capire cosa intendo, basta vedere il parcheggio a (caro) pagamento allestito alla base delle Cime di Lavaredo. Sembra quello di San Siro nel giorno del derby. E con le lamiere luccicanti che arrivano a lambire le pareti di roccia. Al passo Pordoi, per fare un altro esempio, è stata realizzata una funivia per trasportare i gitanti che scendono dai pullman direttamente in cima allo strapiombante sperone di roccia del Sàss Pordoi, con un salto arditissimo di trecento metri a corda unica. Sulla cima (un deserto e silenzioso universo di pietraie e macchie di neve da cui godevi una vista strepitosa sul panettone del Sella, e che ora è brulicante di nonne e bambini...) è stata costruita una mega-stazione d’arrivo in cemento armato con bar, ristorante pizzeria con vista panoramica, solarium con sdraio e menu turistico mentre tutta la zona circostante profuma di brätwurstel.
Dentro il cuore del Catinaccio succede anche di peggio. L’apertura della strada asfaltata che porta le automobili davanti alla porta d’ingresso del rifugio Gardeccia, evitando quell’ora e mezza di camminata che occorreva per raggiungerlo dalla stazione d’arrivo della seggiovia al Ciampediè, ha eliminato ogni forma di selezione naturale. Lo strappo ripido che porta al vicino rifugio Vajolet è dunque ormai, bene o male, alla portata di tutti. E da lì si arriva nel cuore della montagna vera, quella dove, se non la si conosce, ci si può anche far male. Infatti, il risultato più discutibile che questa offerta di massa della montagna produce è che troppa gente ormai può accedere alle escursioni più impegnative come e quando vuole, senza alcun allenamento e la più pallida idea di come ci si debba comportare, mentre ogni conquista (e la montagna lo è) richiede il suo tempo d’esperienza e non sono ammesse scorciatoie o facilonerie, soprattutto quando si rischia la pelle propria e quella degli altri.
Guardando verso il Cansiglio |
Così l’ultima volta che sono salito dal Vajolet al rifugio Re Alberto ho incrociato una bolgia dantesca di gitanti vestiti in canottiera e calzoncini, equipaggiati con le scarpe da jogging che si usano per correre nel parco sotto casa e che si arrabattava ad arrampicarsi lungo le rocce e roccette che portano al rifugio, facendo cadere un mucchio di sassi (per la gioia di quelli che stavano sotto). Qualcuno ogni tanto s’incrodava su qualche roccetta e bisognava aspettare pazientemente, tra le risate della comitiva, che si raccapezzasse su dove mettere i piedi e le mani, per non parlare della visione surreale di una signora in gonna issata di peso dal marito. Insomma, uno sfregio ai miei ricordi che ad un certo punto ho deciso di non accettare più e questo è uno dei motivi che, sia pure a malincuore, mi hanno spinto a cercare una montagna più di basso profilo, sicuramente meno attrattiva e spettacolare ma, proprio perché incontaminata dal turismo di massa, ancora semplice e genuina nei suoi valori. Capace di farti lottare duramente contro la tradizionale ostinazione della gente di montagna per uno stracotto d’asino con la polenta, ma di questo ne parleremo nel prossimo post….