L’aver ritrovato cinquant’anni dopo i tempi dell’università il mio amico veneziano Mario, ora nella sorprendente veste di chef, mi ha ovviamente riacceso i ricordi di un viaggio a Budapest per festeggiare il capodanno del 1971 che avevamo fatto assieme a suo fratello Edoardo e altri amici veneziani ed ora lo racconto. L'idea di quel viaggio era nata casualmente perché poco prima di Natale ero appena stato mollato per l’ennesima volta dalla mia ragazza con la solita tiritera del “Non ti impegni abbastanza negli studi, sei già al secondo anno e hai fatto solo tre esami” del “Pensi solo alla chitarra” e, soprattutto, del “Mi ero spesa con il nonno per farti fare pratica nel suo studio da avvocato, ma ti sei rifiutato…” alla quale ormai non mi degnavo nemmeno più di replicare perché tanto sapevo che bastava lasciar passare due o tre settimane e ci saremmo rimessi assieme. Però mi seccava passare le feste da solo e così Mario mi aveva proposto di andare con loro e altri amici a trascorrere il capodanno in Ungheria con un viaggio organizzato dal CTS (il centro turistico universitario) in collaborazione con l’Etas Kompass che era l’agenzia di viaggio dei sindacati. Così prendemmo nel cuore della notte un treno riservato che partiva da Genova raccogliendo lungo il percorso tutti i partecipanti dalle altre regioni italiane (quasi duecento persone) ed era in fortissimo ritardo dovendo aspettare le coincidenze e lasciar passare i treni ordinari. Anche se avevamo prenotato le cuccette, quella notte non riuscimmo a chiudere occhio, un po’ per l’eccitazione del viaggio, un po’ perché c’era da fare amicizia e conoscere tanta gente e poi perché tra quelli che suonavano la chitarra e cantavano in qualche scompartimento, con grida, risate e schiamazzi vari non sarebbe stato possibile.
Comunque, tra la stazione di Villach e l’arrivo al confine ungherese con la sosta per far salire la Polizia doganale, mi presi una cotta fulminante per una ragazza fiorentina, una morettina ciarliera e dalla battuta pronta di nome Federica, che era al terzo anno di biologia, era in viaggio con un gruppo di amici della piccola compagnia teatrale in cui recitava e che, cosa assai interessante, si era appena lasciata con il suo ragazzo, dunque era libera e bella, proprio come me. Federica omise però di informarmi di un dettaglio molto importante, ma ne parleremo tra poco. Quando il convoglio ripartì cigolando quasi all’alba, dopo l’interminabile controllo dei visti e dei passaporti e il cambio della locomotiva, percorse pochi chilometri in un paesaggio da fiaba dove correvano solo i binari e l’orizzonte della pianura sconfinata era interrotto a tratti da qualche fattoria e rade macchie di alberi, ma poi si fermò nuovamente in una stazioncina con poche case persa in mezzo ai campi sepolti dalla neve. Restammo fermi oltre un’ora a domandarci quale fosse il motivo di quella sosta, che aveva degli aspetti inquietanti dato che si vedeva qualche soldato lungo i binari che sorvegliava i vagoni e alcuni ragazzi nel corridoio cominciarono a scherzare cantando in coro dal finestrino “Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tze Tung” con il pugno chiuso perché secondo loro il Patto di Varsavia ci stava invadendo ed era bene far capire da che parte stavano. Poi, la risposta ai nostri quesiti si palesò sotto forma di un cestino da viaggio portato a destinazione da un camioncino e distribuito a tutti i partecipanti perché il programma prevedeva la colazione e, anche se eravamo in ritardo di molte ore, bisognava rispettarlo. Ricordo che il cestino comprendeva un salamino affumicato, una pagnotta, una specie di formaggino Mio e una mela, ma con la fame che avevamo ci sembrò una manna dal cielo. C’era anche un succo di pesca che con il salamino affumicato faceva a pugni, ma con la sete che ci tormentava da ore andava benissimo.
Arrivati in stazione a Budapest ci accolse una banda che suonava sul binario per accogliere i “compagni lavoratori italiani”, giacché il treno era organizzato dai nostri sindacati, ma essendo noi tutti studenti disoccupati ce ne impipammo bellamente correndo a prendere posto sui bus che ci aspettavano. L’albergo era un enorme “Kombinat” da cinquecento camere sulla Collina delle rose con una bellissima vista sul Danubio e il Ponte Margherita, le stanze erano più che dignitose, ma caldissime, che se toccavi i termosifoni ti ustionavi, ed essendo noi in regime di pensione completa si mangiava anche benino (per noi abituati alle mense studentesche), con porzioni abbondanti, ma servite a rilento da cameriere con l’aria mesta e, oltre a ciò, con la presenza ossessiva nei contorni e nelle insalate delle rape rosse e dei cetrioli, che te li proponevano anche a colazione. Al secondo giorno, dopo il quarto piatto di rape e cetrioli, decidemmo che, essendo i prezzi convenientissimi, valeva la pena di provare la cucina locale nei ristoranti del centro. Così, mi feci coraggio, andai da Federica, che era rimasta al tavolo a fare colazione da sola, e le chiesi se più tardi le sarebbe piaciuto venire a pranzo con noi tre.
Lei accettò volentieri e così al momento di uscire ci facemmo chiamare un taxi e siccome avendo abitato a Belgrado ricordavo ancora qualcosa del serbo-croato, per fare colpo sulla ragazza dissi ai miei amici di lasciar fare a me e chiesi al tassista se oltre a portarci in Vàci Utca (la via del passeggio e dello shopping) poteva anche indicarci qualche ristorante caratteristico. Lui però sembrava molto scortese e rispondeva a grugniti, tanto che Federica e i miei amici iniziarono a prendermi per i fondelli sulla mia conoscenza delle lingue slave. A quel punto il tassista si voltò a guardarci e ci chiese in inglese “Ma perché diavolo parlate russo se non siete russi? Di dove siete?” e così, una volta appurato che eravamo italiani, diventò gentilissimo e loquace e ci indicò anche un locale dove si mangiava la cucina tradizionale in modo eccellente. Dopo un lauto pranzo a base di porkolt (quello che noi chiamiamo gulasch) arrosto Esterhazy e palacinke al formaggio e funghi, debitamente annaffiato da un paio di bottiglie di Egri Bikaver e da qualche bicchierino di palinka di ciliegie, ci concedemmo una lunga passeggiata per i negozi del centro durante la quale Federica, che ormai camminava tenendomi abbracciato, mi raccontò nuovamente le sue pene d’amore (anche con la lacrimuccia) e le misi a disposizione tutta la mia esperienza e i miei saggi consigli in tema di abbandoni e riprese sentimentali.
La mattina dopo mentre facevamo colazione Federica venne al nostro tavolo per sapere se avevamo voglia di andare con lei e i suoi amici ai Bagni Széchenyi, che sono uno dei più famosi stabilimenti termali della città, a provare il brivido del bagno all’aperto con l’acqua che fuma mentre fuori ci sono dieci gradi sottozero, che loro l’avevano fatto il giorno prima ed era bellissimo. Naturalmente nessuno di noi aveva pensato di mettere in valigia il costume da bagno e la cuffia in pieno inverno e, anche se capivo dal modo come mi guardava che ci teneva molto alla mia presenza, preferii rinunciare, non solo perché negarsi e farsi desiderare da una donna rientra nelle tattiche classiche del corteggiamento, ma anche perché uno dei suoi amici aveva tirato fuori dalla borsa, per mostrarcelo, il costume fantozziano da socialismo reale che si poteva comperare direttamente all’ingresso del Bagno e francamente non era il caso.
Verso le dieci di sera, decidemmo assieme ad altri ragazzi rimasti ad annoiarsi in albergo di fare una passeggiata “audace” nella notte ungherese lungo il Danubio, affrontando un freddo cane (tutto il giorno eravamo stati a -10°) e la neve che scricchiolava come vetro sotto ai piedi. Strada facendo Federica ed io, con la scusa di affacciarci al parapetto per guardare dei blocchi di ghiaccio portati dalla corrente, rimanemmo volutamente indietro rispetto al gruppo. Lei, dopo un lungo silenzio, indicandomi un bellissimo cielo stellato sopra le nostre teste mi disse che si sentiva felice quella sera ed aggiunse con gli occhi che le luccicavano: “Non mi chiedi perché?” . Io provai un tuffo al cuore perché capii che stava per scoccare la scintilla del primo bacio e per un attimo immaginai il tepore delle sue labbra sulle mie. Ma poi lei aggiunse: “Lo sono perché stamattina mi sono rimessa con Enzo e volevo che tu lo sapessi per primo perché sei stato davvero carino con me in questi giorni e mi hai aiutato tanto”. Purtroppo il piccolo dettaglio che aveva omesso di raccontare quando c’eravamo conosciuti era che il suo ragazzo con cui si era lasciata non era rimasto a Firenze come credevo ma viaggiava assieme a lei e al suo gruppo di amici. Essendo uno che sa perdere sportivamente, o almeno ci prova, le risposi che ero davvero felice per lei per questa bella notizia, ma probabilmente mi uscì lo stesso tono di voce che avrei avuto dopo un goal preso dall'Inter al novantesimo e non dovetti essere molto credibile, tanto che lei dopo avermi scrutato per bene con lo sguardo indagatore per capire se fossi sincero decise di tagliar corto invitandomi ad allungare il passo per raggiungere gli altri.
Questa delusione imprevista giustificò ampiamente gli eventi successivi e la sbronza triste durante il veglione in albergo della sera seguente, di cui, in queste foto qui sotto, si vedono già i segni nella mia espressione malinconica e nel numero delle bottiglie già scolate. Durante il cenone, guardando verso il tavolo di Federica individuai finalmente chi fosse questo Enzo e, sempre per la faccenda della mia sportività, capii che in realtà non avrei avuto alcuna possibilità perché era un gran bel ragazzo, alto, magro, con l’aria molto più adulta della mia e con gli occhiali da intellettuale. Era anche precocemente stempiato, per amor di cronaca, ma immaginavo che lei non ci facesse caso. Però, malgrado cercassi di mettermi il cuore in pace, la cosa mi rodeva assai, tanto da trovare fastidiosi e insopportabili i cinque violinisti tzigani in abito tradizionale della Pustza che suonavano tra i tavolini e che dopo la lauta mancia pretesa da tutti i clienti prima di uscire di scena suonarono per gratificarci in quanto italiani “funiculì funiculà” e “o’sole mio”. Così, di tristezza in tristezza, al momento dell’arrivo dell’ennesima insalata di rape rosse e cetrioli, mi alzai e, infilato il giaccone, me ne uscii a camminare fuori dall'albergo dove c’era già la gente alticcia che faceva dei girotondi per strada con chiunque s’incontrasse anche se non era ancora la mezzanotte. Dopo aver trovato un gruppo di ragazzi genovesi della nostra comitiva, finimmo ad aspettare l’anno in un locale enorme dove sembrava ci fosse la nebbia da tanto fumo che c’era e dove cameriere trafelate e in un vociare assordante servivano in continuazione piatti enormi di wurstel affumicati con patate e bicchieroni di birra da litro, che, più che a Budapest, sembrava di essere all’Oktoberfest.
Tornato in albergo e rinunciato subito a telefonare a casa per fare gli auguri di buon anno a mia madre, giacché davanti ai due soli telefoni nella hall abilitati alle chiamate all'estero e solo dopo la richiesta al portiere, c’era una coda interminabile, trovai i miei due compagni di viaggio tristi e mogi perché le due ragazze magiare spuntate dal nulla all'inizio dei balli per sedersi al loro tavolo, si erano dileguate dopo essersi fatte offrire di tutto. Così, ordinata una bottiglia di Palinka per scacciare i brutti pensieri, ricordo solo che ad un certo punto Mario ed Edoardo andarono a dormire ed io rimasto solo ad osservare le ultime coppie che ancora ballavano e a finire la bottiglia, che era un delitto lasciarla mezza piena sul tavolo, ho pensato che l’indomani avrei chiamato la mia ragazza per dirle che accettavo di fare praticantato nello studio legale di suo nonno e al ritorno avrei studiato Diritto Costituzionale ed Esegesi delle fonti del Diritto Romano per la prossima sessione di esami. Poi, devo aver preso sonno e credo di essere scivolato dalla sedia sul pavimento, perché mi sono risvegliato all'alba sotto al tavolo con le cameriere che stavano già mettendo a posto per le colazioni e ridacchiarono parecchio alla mia vista con commenti che immagino salaci, ma che per mia fortuna erano in ungherese.
Il due gennaio, dopo un giorno intero passato a dormire e a bere caffè per recuperare dalla sbornia, abbiamo lasciato l’albergo (Federica era sparita chissà dove) per la prevista breve escursione del mattino in una cittadina storica lungo il Danubio dal nome impronunciabile, ma alla fine non ci andammo nemmeno perché i nostri bus furono bloccati nel parcheggio in attesa della Polizia. Infatti, rifacendo le stanze, il personale si era accorto che erano spariti degli asciugamani di spugna e ora volevano fare ispezionare tutti i bagagli degli ospiti per trovarli, giacché quei beni erano di proprietà dello Stato e del popolo ungherese e la faccenda per loro era piuttosto seria. I colpevoli, quattro ragazzi di Livorno che erano su un’altro pullman, vennero fatti scendere, multati, denunciati e spediti a casa con foglio di via e noi, sicché tra una cosa e l’altra si erano perse quattro ore, nel pomeriggio, dopo un semplice panino per pranzo, fummo accompagnati in stazione a riprendere il treno per l’Italia e mai viaggio di ritorno mi sembrò più lungo.