Mi sono innamorato del cinema forse già in quell’ottobre del 1948 quando ho iniziato a nascere al cinema Malibran con mia madre che a forza di ridere per un film di Totò aveva rotto le acque con qualche giorno di anticipo o quando, vent’anni dopo, da studente politicamente impegnatissimo mi sono infilato in qualsiasi cineforum proiettasse film d’autore con il dibattito incorporato, meglio se con la mia compagna dell’epoca (del Manifesto anche lei) che così avrebbe potuto vedere di persona quanto fossi politicamente determinato nell’individuare e denunciare le contraddizioni borghesi dell’autore. Pertanto, in quel periodo mi sono sciroppato il Napoleon di Abel Gance, il Nosferatu di Murnau, il Dies Irae di Carl Theodor Dreyer e, naturalmente la trilogia dell’Alexandr Nevskij, del Que Viva Mexico! e della Corazzata Potëmkin di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, montaggio analogico della scalinata compreso (lo so, ora vi aspettate che dica “è una cagata pazzesca!” ma non lo dirò. A me era piaciuto moltissimo…). Anche il neorealismo italiano ebbe il suo giusto tributo in quegli anni e ho visto la Magnani stramazzare colpita dal soldato tedesco almeno una dozzina di volte e altrettante la Silvana Mangano di Riso Amaro buttarsi nel vuoto e poi venire ricoperta di riso dalle altre mondine. Quindi è stata la volta del cinema colto d’autore e posso dire con orgoglio di essere sopravvissuto alla noia mortale del Deserto Rosso di Antonioni e del Dillinger è morto di Ferreri, con tutte le nevrosi, l’incomunicabilità, l’alienazione e, soprattutto, il disagio esistenziale dello spettatore in sala.
Poi, dopo la contestazione della Mostra del Cinema, le cariche della polizia e l’inizio delle giornate alternative del cinema con lo schermo in campo Santa Margherita e gli straordinari dibattiti del dopo proiezione con gli attori e i registi democraticamente seduti con noi ai tavolini dei bar, accadde che l’anno successivo la mia compagna, molto pragmaticamente secondo lei, ma con tipico opportunismo borghese secondo me, venne assunta proprio alla segreteria della Mostra del Cinema cercando in seguito di acquisire la mia comprensione con una elargizione di biglietti omaggio per vedere nella piccola saletta riservata alla stampa dei film polacchi con le didascalie in tedesco. Che rifiutai ovviamente con sdegno perché la coerenza ideologica non poteva essere comprata e anche perché a me interessava vedere il Satyricon di Fellini.
Dopo aver lasciato di lì a poco e a seguito di altre vicissitudini amorose la ragazza di cui sopra per una laureanda in lingue ispano-americane, mi toccò anche concederle la prova d’amore di vedere per quattro volte di fila il Cria Cuervos di Carlos Saura in lingua originale perché lei voleva impadronirsi per bene dell’accento castigliano, ma di fronte alla richiesta di tornare a vederlo per la quinta volta mi resi conto che forse era dura d’orecchio e comunque feci prima io ad imparare a dirle “pero ir al infierno!” e a mandarla a quel paese con una dizione impeccabile.
Per reazione a tanto impegno e anche perché quella stagione di lotte e di passioni si andava esaurendo in un compromesso storico che non capivo, mi venne finalmente la sbornia da cinema di serie B o anche C e quindi (avendo anche pochi soldi in tasca) iniziai a vedere al piccolo cinema Accademia vicino a Ca’ Foscari e con le careghette in legno scricchiolanti, tutte le collane di film a base di vampiri con Christopher Lee e cloni vari, gli spaghetti western girati in Basilicata tipo “Lo chiamavano Tresette e giocava sempre con il morto” con il Klaus Kinski cattivissimo che veniva sempre ammazzato nel duello finale e con le battute esilaranti degli studenti a far da contorno. I primi filmini scollacciati con le Edwige Fenech e le Gloria Guida a garantire le tette e con Lino Banfi e Renzo Montagnani a garantire la parte ridanciana, si potevano vedere invece al Cinema Arsenale, tra le ovazioni dei marinai in franchigia, dei pensionati e del “lumpenproletariat” (marxianamente parlando) di Castello Alto, tanto che una sera ci fu persino uno che, colto da euforia eccessiva per l’apparire del sedere di Nadia Cassini, sparò un colpo di pistola sul soffitto causando immediatamente la chiusura del locale.
Tutto questo lungo preambolo mi serve per dire quanto il cinema, qualunque sia la storia che ti viene narrata e come ciò venga fatto, sia diventato per me un rito quasi liturgico e mistico. Una magia che voglio vivere concentrato sulle immagini, le loro atmosfere e sui dialoghi. Non m’importa una cippa se la sala ha il mega-multi-maxischermo e il dolby surround che quando fischiano le cannonate ti viene da abbassare la testa e le poltroncine in velluto che ci sprofondi dentro, o se invece ha lo schermino striminzito dei cinema di periferia di una volta con l'immagine dei primi film in cinemascope che fuoriusciva ai lati lungo il muro, i seggiolini duri e traballanti, l’audio che gracchia e la pellicola che ogni tanto si spezza, si accendono le luci in sala e il pubblico urla in coro “Goboooo…” che sarebbe il richiamo veneziano all’operatore nella cabina di proiezione perché provveda. Mi va tutto bene, perfino la signora che al Cinema Garibaldi per non uscire durante la proiezione di una scena importante aveva fatto fare pipì al bambino contro il muro della sala o i ragazzini che in galleria facevano le corna nel raggio di luce del proiettore per farle apparire sullo schermo finchè non arrivava la maschera con la pila a redarguirli. Accetto tutto, purché abbia vicino gente che non mi disturba spezzando l’incantesimo. Perché una volta al massimo c’era quello/a che scartava le caramelle Charms, però almeno sapevi che il pacchetto era da dieci, dunque più di tanto non poteva andare avanti e comunque potevi sperare che una gli si piantasse nella strozza, così l’avrebbe smessa una volta per tutte. Più grave era il tizio con il pacchetto dei semi di zucca, che lo sentivi sputazzare con metodo dietro di te per tutta la proiezione, però nei cinema di prima visione non lo trovavi, così come quelli che venivano al cinema solo per limonare al buio e dunque potevano spendere poco, che altrimenti si sarebbero rivolti ad un affittacamere. Però almeno quelli si mettevano a fare i fatti loro nelle file in fondo alla sala e al massimo poteva giungere qualche gemito occasionale. Una volta, al cinema Giorgione, preceduto da uno strillo giunse anche il suono di un ceffone accompagnato da un “Te gò dito de no!” ma fu un episodio isolato, così come la banda di ragazzini che sempre nello stesso cinema si divertiva a sputazzare dalla galleria sugli spettatori in platea. Del resto bastava prendere posto qualche fila più avanti e il problema era risolto, così come bastava non andare al cinema Olimpia il giorno dopo l’acqua alta a San Marco evitando in tal modo che l’imbottitura delle poltroncine ancora zuppa d’acqua ti offrisse l’effetto bidet compreso nel prezzo.
Come vorrei poter vivere il film in sala...
Oggi invece lo spettatore medio grazie anche alle nuove sale multiplex, multi confort e multi qualsiasi cosa, si è dotato di nuove armi di disturbo di massa, quali i bidoncini di pop corn nei quali ravanare con la mano per tutto il film e che emanano nel raggio di alcuni metri l’odore tipico della rosticceria quando friggono le mozzarelle in carrozza, i bicchieroni di bibita gassata da tirare su con la cannuccia sino all’ultima goccia (ruttino all’aroma di Coca-cola in arrivo tra quattro.. tre… due…) e la scatoletta delle Tic-tac o delle M&M’s da scuotere in continuazione come le maracas alla ricerca del confetto. Ma non solo, perché ci sono anche nuove tipologie di spettatori: il branco di una decina di adolescenti che passa il tempo a cazzeggiare dei fatti suoi e ogni tanto ce n’è almeno un paio che si alza ed esce dalla sala (a fumare? a pomiciare? a prendere nuovi pop corn?) e poi rientra mentre ne escono altri due e così via. Poi c’è quello che lui il film lo ha già visto, però la sua lei seduta accanto deve sapere per tempo che “Adesso lui le spara e la crede morta, però vedrai che lei non muore…” e che “Alla fine viene fuori che lui è suo padre…” e anche la tizia che ad ogni scena cruenta ansima di terrore dicendo ad alta voce “Oddio…non posso vedere…non posso vedere” tanto da indurti a dirle “Signora, allora non guardi, ma lasci guardare a noi…”. Ci sono anche quelli/e che all’improvviso durante la proiezione si ricordano che “Ah... ti sa che geri me gaveva ciamà la Patrizia?… dopo te conto, che questa la xè grossa...” e invece il “dopo” diventa “subito” e così, mentre stai cercando di concentrarti su Colin Firth che sta pronunciando il Discorso del Re, vieni informato delle vicende privatissime di questa Patrizia che, anche se chiedi a costoro per cortesia di fare silenzio, dopo alcuni secondi ricominciano, tanto devono essere importanti per le sorti dell'umanità. Ci sono anche quelli che arrivano a proiezione iniziata da quindici minuti e anche se hanno i posti F 21 e 22 iniziano a far alzare tutti dalla sedia F1 perché è troppo scomodo salire dall’altra scalinata. E, infine, oggi c’è la piaga biblica delle piaghe bibliche, quella che ieri sera mi ha indotto due volte a cambiare posto: gli imbecilli che al cinema invece di guardare che cavolo stiano proiettando consultano in continuazione il telefonino e si scambiano messaggi su What’s Up o twittano i cavolacci loro illuminando il buio della sala con i loro schermi formato padella, che emettono gli stessi fasci di luce dei proiettori della contraerea durante la guerra, tanto che ieri sera, siccome in queste cose utilizzo il principio “à la guerre comme à la guerre” ad un certo punto ho acceso il mio e dopo aver detto “Guardi, gliela passo subito…” l’ho porto alla ragazzina seduta a qualche sedia di distanza da me che stava trappolando con il suo Samsung dicendo “Scusi... è’ per lei…" e appena la giovinetta mi ha risposto sorpresa " Davvero è per me?" le ho detto: " Sì... certo... dicono se la può smettere con quel telefonino…” . Beh… mi ha guardato male, ma almeno ha smesso. Del resto, non si è letta l’Arte della guerra di Sun Tzu per caso…