Ormai diversi anni fa durante una cena mi venne l’incauta idea di raccontare a dei nostri amici di come a mio parere il modo migliore di svezzare definitivamente un figlio ormai quasi alla fine dell’adolescenza evitando di ritrovarsi poi per casa dei mammoni incapaci anche di fare una raccomandata alle poste, fosse quello di adottare lo stesso sistema che mia madre, adorabile quanto stravagante artista bohémienne ma molto avanti rispetto ai suoi tempi, aveva usato con me per farmi crescere dopo la perdita improvvisa di mio padre. Questo consisteva nel superare legittime ansie e paure e responsabilizzare i figli lasciandoli vivere in progressiva autonomia (ma controllata con discrezione e con la regola del tre sbagli e sei fuori) le loro esperienze esistenziali, meglio se all'estero, perché tanto oggi con Intercultura e organizzazioni simili ci sono opportunità per tutte le borse. Infatti, non c’è nulla di meglio per un ragazzo che metterlo in condizione di gestirsi da solo e doversi sfidare quotidianamente con lingua, usi e culture diverse per svegliarsi rapidamente e diventare adulto. Questa tesi la proposi incautamente, non tanto perché incrociai subito lo sguardo estasiato dell’elfa che sapeva da: “Mi devo essere persa qualcosa. Quand'è che tu saresti diventato adulto?” quanto perché avevo dimenticato che a tavola con noi ad ascoltare quella proclamazione d’intenti c’erano anche le orecchie interessatissime di un quasi diciassettenne. Così, puntuale come una cambiale in scadenza solo una settimana dopo mi arrivò un “Papà, mi sono informato su internet e durante l’estate ci sarebbe la possibilità di uno scambio di studio all'estero praticamente a costo zero. Tu hai detto che mi farebbe bene, pertanto lo posso fare, vero?”
“Beh… sì. Certo che lo puoi fare, non mi rimangio quello che ho detto e poi tanto sei in vacanza.”
“Quindi è confermato? Non è che poi cambi idea?”
“Ti ho detto di sì, sono una persona di parola perciò stai tranquillo. Allora… dove vorresti andare? Spagna? Inghilterra? Francia?”
Gli occhi del giovanotto s’illuminarono di uno degli sguardi maligni di sua madre “No, Australia…”.
Nostro figlio nel suo periodo Australiano. Quando sua madre vide questa foto la definì : il pasto dell'Australopithecus Venetianus |
Così all'inizio fu Oliver detto “Ollie”, il coetaneo australiano di Melbourne che ricevemmo in scambio quando mio figlio iniziò la sua prima avventura di giramondo transoceanico. “Ollie”, a cui sono affezionato come fosse un secondo figlio, arrivò a casa nostra un giorno di giugno guardandosi attorno con l’aria diffidente di un Alec Guinnes, ufficiale di Sua Maestà britannica con il frustino da cavallo sotto il braccio e in visita alle colonie remote dell’Impero. Tranquillizzato nelle sue inquietudini su quelle terre e tribù sconosciute grazie alla cucina italiana di cui si rivelò subito un entusiasta e vorace ammiratore (gli inglesi insinuano maligni che il vocabolario australiano sia composto solo dalla lettera B e tre parole: Beer, Beefsteack, Barbecue e dunque nessuna meraviglia di ciò) dopo cena gli consegnammo la stanza di nostro figlio e andammo tutti a dormire. Verso le due di notte iniziai a sognare Jimmy Page che partiva con l’assolo di Heartbreaker che però dopo qualche minuto diventò Smoke in the water e lì il sogno non mi tornava più perché quello era un pezzo dei Deep Purple. Quando la musica virò ancora su Back in Black degli AC/DC realizzai finalmente che si trattava dell’ospite australiano. Infatti, lo trovai seduto in pigiama sul letto con la mia Fender che aveva scovato dentro l’armadio e un sorriso compiaciuto al mio apparire “Nice guitar! It’s yours?”. A fargli compagnia c’erano un paio di lattine di Nastro Azzurro scovate in frigorifero. Così realizzai di avere in casa un eccellente chitarrista in preda al jet lag e che era il caso di nascondere meglio le scorte di birra.
Oliver oggi è un brillante jazzista e ha appena inciso il suo primo album "Survival" che raccoglie suoni e atmosfere di oltre un mese di viaggio attraversando l' Australia |
Nei giorni seguenti ci furono altre curiose scoperte reciproche: lui inorridì guardandoci come aborigeni quando seppe che qui si mangiava la carne di cavallo (Are u kidding me? You eat horses? Really?) ma poi volle imparare a tutti i costi a preparare lo spritz e la carbonara. A nostra volta, scoprendo il numero di barattoli che si era portato dietro, apprendemmo che nessun Aussie poteva concepire una colazione senza il Vegemite, che sarebbe l’estratto di verdura Liebig che qui si usa per il brodo mentre dall'altra parte del mondo lo spalmano sul pane tostato e imburrato e che per loro è normale chiedere se puoi fargli una “pasta pommidoro and basillico, please” alle cinque del pomeriggio, come fosse la merenda. Al termine del suo lungo soggiorno presso di noi Ollie, che ormai oltre ad un italiano più che accettabile aveva imparato anche diverse espressioni dialettali veneziane alcune delle quali irriferibili, volle ricompensarci preparandoci un dolce caratteristico: una Pavlova (una sorta di meringata) alle fragole e panna. Ancora oggi, grazie alla sua inesperienza nello scegliere il contenitore più adatto a montare a neve con il frullatore le chiare di 12 uova troviamo tracce di albume in varie zone della cucina.
Katerina mentre scopre con moderato entusiasmo la cucina di pesce veneziana e il fritto misto dell'Adriatico (anche il prosecco). |
Così ebbe inizio questa usanza simpatica degli ospiti di mio figlio (che ha l’invito facile e non considera che abitando noi a Venezia e non a Cavarzere o Trebaseleghe, qui arrivano tutti di corsa) di cucinare per noi i propri piatti tradizionali per mostrarci gratitudine e ricambiare l’ospitalità. La faccenda diventò nel tempo una tradizione a volte gradevole, altre da accogliere con il sorriso sulle labbra e la morte nel cuore, come per quella sua amica belga che ci mise in tavola un qualcosa che ancora oggi è oggetto di discussione in famiglia per capire cosa fosse.
Il ritorno dall'Australia di nostro figlio ci restituì come previsto un adulto ormai in grado di sbrigarsela da solo in mille faccende e la convinzione che il bisogno di esperienze estere e avventurose dell’erede fosse finalmente sedato, invece questo ripartì in automatico poco tempo dopo appena gli fu possibile andare in Erasmus scegliendo questa volta i 30 gradi sottozero dell’inverno lituano tanto per non farci stare in ansia. Da Vilnius rientrò alla base sei mesi dopo avendo imparato definitivamente a farsi il bucato a mano nel lavandino (ma davvero occorre risciacquare?) ad appenderlo sgocciolante sopra il letto del suo compagno di stanza, a stirare e a cucinare, tanto che negli ultimi mesi, essendo di indole ingegnosa, per arrotondare l’assegno mensile (sua madre è notoriamente di braccino corto) dava lezioni di ragù, risotto e lasagne ai suoi colleghi di ostello in cambio di una spesa gratuita al supermercato.
Una sera la nostra telefonata quotidiana con Skype venne interrotta perché era entrato qualcuno in stanza a chiedergli se poteva risolvergli un problema urgente e io pensai compiaciuto che fosse una questione di studio, invece si trattava dell’indonesiano del piano di sopra che non capiva come cuocere una piadina. Soprattutto nostro figlio rientrò da Vilnius con una nuova ragazza conosciuta in università: Katerina, una graziosa studentessa (ormai dottoressa) di Brno con la quale sta assieme già da tre anni e che è entrata a pieno titolo nella nostra casa e nelle simpatie mie (ma qui ci vuole poco) e di mia moglie (che con le madri è sempre più difficile). Questo anche se il livello di conoscenza dell'inglese dell'elfa è decisamente "cheap" perché pur avendo soggiornato alcuni mesi da ragazza per una full immersion presso dei suoi cugini che vivono a Newcastle era rientrata alla base solo con un forte accento padovano essendo questi suoi parenti di Monselice.
Un vero professional si nota dalla cura dei dettagli. Tutto in tinta: cucina, maglietta, confezione di farina e ciotola delle uova... (Gordon Ramsay is a loser...) |
Una sera la nostra telefonata quotidiana con Skype venne interrotta perché era entrato qualcuno in stanza a chiedergli se poteva risolvergli un problema urgente e io pensai compiaciuto che fosse una questione di studio, invece si trattava dell’indonesiano del piano di sopra che non capiva come cuocere una piadina. Soprattutto nostro figlio rientrò da Vilnius con una nuova ragazza conosciuta in università: Katerina, una graziosa studentessa (ormai dottoressa) di Brno con la quale sta assieme già da tre anni e che è entrata a pieno titolo nella nostra casa e nelle simpatie mie (ma qui ci vuole poco) e di mia moglie (che con le madri è sempre più difficile). Questo anche se il livello di conoscenza dell'inglese dell'elfa è decisamente "cheap" perché pur avendo soggiornato alcuni mesi da ragazza per una full immersion presso dei suoi cugini che vivono a Newcastle era rientrata alla base solo con un forte accento padovano essendo questi suoi parenti di Monselice.
Di Katerina ho già parlato in qualche post precedente e non mi ripeterò se non per dire che ospitandola periodicamente per alcune settimane anche per lei è iniziato inevitabilmente lo stesso percorso di italianizzazione di Ollie con la differenza che mentre questi, come tutti gli Aussie, si sentiva sostanzialmente un inglese abbandonato da secoli su un continente sperduto in mezzo all'oceano Pacifico e circondato da gente con gli occhi a mandorla, dunque era entusiasta di qualsiasi cosa provenisse dalla madre Europa (tanto più dall’Italia), lei, essendo di formazione sostanzialmente asburgica e quindi molto rigorosa, logica (non a caso sta con un logistico) e schematica, tendeva a diffidare istintivamente di tutto quel che è latino e mediterraneo, dunque approssimativo e casinista, confutandolo con quel suo “in Czech Republic…” che sapeva di cortese riprovazione o di stupore di fronte a stranezze che non comprendeva, come quando davanti al banco della gastronomia di Auchan ci chiese perché avessimo bisogno di tanta varietà di formaggi, quando ne bastavano due o tre tipi. Bastò una cena basata su assaggi di burrate, grana, scamorze, gorgonzola, taleggi e ricotte affumicate per risponderle e trasformarla in una buongustaia entusiasta.
Anche Katerina, come tutti gli ospiti stranieri a casa nostra non si è sottratta alla tradizione di cucinare per noi, ma in questo caso, essendo lei una cuoca notevole ed amando noi la cucina mitteleuropea, dopo il suo primo e superbo gulasch con i knedliky la cosa è stata subito accolta e incoraggiata. La ragazza è anche piuttosto pragmatica nelle sue scelte e ai regalini tipo profumi, creme per il viso e sciarpine che di solito i genitori fanno alle ragazze dei figli per Natale ci ha fatto sapere tramite il nostro beneamato che preferiva cose utili. Così, dopo la Moka Bialetti dello scorso anno, questo Natale è arrivata la richiesta più inquietante: la macchina per tirare la sfoglia. Inquietante perché siamo stati subito informati che il suo desiderio, per farci vedere i progressi nell'italianizzazione, era di collaudarla immediatamente in loco e prepararci le tagliatelle fatte in casa, come una vera sfoglina bolognese. Ora, essendo lei una debuttante totale nell'arte di impastare, la faccenda presentava molti punti oscuri, anche perché mio figlio, subito precettato come aiuto di cucina, pur proclamandosi grande cuoco di lasagne (dice che quando è ospite da lei tutta la famiglia gliele richiede pressantemente, cane compreso) in realtà compera quelle della Barilla e sembrava non avere idea di come si realizzasse una fontana con la farina e di come iniziare a lavorare le uova al suo interno e non sul pavimento della cucina avendo rotto gli argini.
Johann-Markus Von Lebel, comandante dell'U-331 mostra orgoglioso l'impasto creato dalle sue vigorose mani e a suon di imprecazioni in varie lingue |
Anche Katerina, come tutti gli ospiti stranieri a casa nostra non si è sottratta alla tradizione di cucinare per noi, ma in questo caso, essendo lei una cuoca notevole ed amando noi la cucina mitteleuropea, dopo il suo primo e superbo gulasch con i knedliky la cosa è stata subito accolta e incoraggiata. La ragazza è anche piuttosto pragmatica nelle sue scelte e ai regalini tipo profumi, creme per il viso e sciarpine che di solito i genitori fanno alle ragazze dei figli per Natale ci ha fatto sapere tramite il nostro beneamato che preferiva cose utili. Così, dopo la Moka Bialetti dello scorso anno, questo Natale è arrivata la richiesta più inquietante: la macchina per tirare la sfoglia. Inquietante perché siamo stati subito informati che il suo desiderio, per farci vedere i progressi nell'italianizzazione, era di collaudarla immediatamente in loco e prepararci le tagliatelle fatte in casa, come una vera sfoglina bolognese. Ora, essendo lei una debuttante totale nell'arte di impastare, la faccenda presentava molti punti oscuri, anche perché mio figlio, subito precettato come aiuto di cucina, pur proclamandosi grande cuoco di lasagne (dice che quando è ospite da lei tutta la famiglia gliele richiede pressantemente, cane compreso) in realtà compera quelle della Barilla e sembrava non avere idea di come si realizzasse una fontana con la farina e di come iniziare a lavorare le uova al suo interno e non sul pavimento della cucina avendo rotto gli argini.
Il gran giorno delle tagliatelle, prima di obbedire all'elfa e al suo imperioso "lasciali soli, che si divertano tra loro a fare la pasta" siccome la ragazza è molto orgogliosa e indipendente e mio figlio mi raccomanda sempre di non fare il padre italiano protettivo e premuroso, che da loro non si usa, mi sono limitato a ricordarle la faccenda dell’uovo ogni cento grammi di farina (che naturalmente già lo sapeva, perché prima di fare una cosa si informa e studia, mica come noi latini che improvvisiamo) e soprattutto a confutare la sua certezza, acquisita da non so quale loro (dunque sacra) trasmissione di cucina, che nell'impasto delle tagliatelle ci andasse una robusta dose di lievito di birra. Volevo almeno evitare che trattando l’impasto delle tagliatelle come quello di un panettone si ripetesse il drammatico quanto lontano ricordo di quando condividevo un appartamentino per studenti a Padova con quel simpatico fancazzista che (l'ho raccontato in un post precedente) già ci aveva reso celebri in tutto l’ambito universitario patavino come i due che si erano mangiati il “poulet à la merde”, giacché ignorava che al suo pollo ruspante al barolo occorreva togliere le interiora (e per giustificarsi osò pronunciare la celebre frase “sono iscritto a giurisprudenza, mica a veterinaria”). Quella volta, invece, avendo invitato a pranzo la mia ragazza dell’epoca e una sua amica su cui lui voleva fare colpo, aveva deciso di propinare loro un risotto alla salsiccia al “modo di casa sua”, che poi altro non era che una quantità invereconda di salsiccia sminuzzata e rosolata a parte con aglio e rosmarino, da accoppiare a fine cottura con del normale riso bollito spacciato per Pilaf. L’errore lo avevo commesso lasciandolo solo, visto che erano arrivate le ospiti, nel momento di fare le dosi. Infatti, il nostro cuoco, non avendo la più pallida idea di quanto ne servisse a persona, ma essendo di indole ingegnosa, aveva preso dalla tavola i nostri quattro piatti fondi e verificato che versando tutta la confezione questi si riempivano appena, non volendo che le ospiti rimanessero a corto di riso per un eventuale bis, aveva aperto una seconda scatola e ne aveva aggiunto una buona metà. Quindi, gettato quel chilo e mezzo di Arborio nell’acqua bollente, ci raggiunse in salotto per unirsi all’aperitivo e dopo 10 minuti di cottura anche il riso, forse sentendosi escluso, decise di uscire dalla pentola e di venirci incontro lungo il corridoio.
In ogni caso, chiusa alla mie spalle la porta della cucina e lasciato dentro il bretone, a suo rischio e pericolo d'infarinatura, mi ritirai in salotto a leggere quel "In difesa delle cause perse" di Slavoj Zizek il cui titolo non poteva essere più appropriato in quel frangente di grandi timori. Dalla cucina arrivavano periodicamente alle mie orecchie attente rumori di pentole, ordini decisi preceduti da un "Honey!" (di lei) e imprecazioni in inglese seguite da un "Honey!" (di lui) oltre a qualche "woff" del bretone. Poi verso mezzogiorno, del tutto inatteso, iniziò ad filtrare da sotto la porta un buon profumo di sugo al pomodoro e basilico che, vista l'ora, iniziò a procurarmi un tale languore da indurmi a bussare e a chiedere se avessero finito. Ottenuta l'autorizzazione ed aperta la porta rimasi affascinato dallo spettacolo, tanto da chiamare subito l'elfa a guardare a sua volta: per tutta la cucina erano appese delle stupende tagliatelle ad asciugare e tutto attorno regnava l'ordine e il pulito. Mio figlio che, sarà per la barba che si è fatto crescere o perché vivendo a Vienna ormai parla anche tedesco, sembrava il comandante dell' U-Boot 331 con tutto l'equipaggio schierato, ci disse orgoglioso "Non si vede San Luca attraverso la sfoglia appoggiata alla finestra, come dice la tradizione bolognese, ma solo perché non ce l'abbiamo... però si vede la casa della signora Tomaello, vi basta?". L'applauso ammirato dell'elfa e mio arrivò immediatamente (replicato al momento di assaggiare le tagliatelle, davvero eccellenti) così come l'abbraccio ai due cuochi e la consapevolezza che da quel giorno in poi in Czech Republic una graziosa sfoglina di Brno avrebbe incominciato a produrre con metodo lasagne, fettuccine e tagliatelle in quantità industriale. Che in fondo fa piacere pensare, nel nostro piccolo, di essere stati dei promotori del made in Italy...
La prima tagliatella fatta in casa non si scorda mai... |
In ogni caso, chiusa alla mie spalle la porta della cucina e lasciato dentro il bretone, a suo rischio e pericolo d'infarinatura, mi ritirai in salotto a leggere quel "In difesa delle cause perse" di Slavoj Zizek il cui titolo non poteva essere più appropriato in quel frangente di grandi timori. Dalla cucina arrivavano periodicamente alle mie orecchie attente rumori di pentole, ordini decisi preceduti da un "Honey!" (di lei) e imprecazioni in inglese seguite da un "Honey!" (di lui) oltre a qualche "woff" del bretone. Poi verso mezzogiorno, del tutto inatteso, iniziò ad filtrare da sotto la porta un buon profumo di sugo al pomodoro e basilico che, vista l'ora, iniziò a procurarmi un tale languore da indurmi a bussare e a chiedere se avessero finito. Ottenuta l'autorizzazione ed aperta la porta rimasi affascinato dallo spettacolo, tanto da chiamare subito l'elfa a guardare a sua volta: per tutta la cucina erano appese delle stupende tagliatelle ad asciugare e tutto attorno regnava l'ordine e il pulito. Mio figlio che, sarà per la barba che si è fatto crescere o perché vivendo a Vienna ormai parla anche tedesco, sembrava il comandante dell' U-Boot 331 con tutto l'equipaggio schierato, ci disse orgoglioso "Non si vede San Luca attraverso la sfoglia appoggiata alla finestra, come dice la tradizione bolognese, ma solo perché non ce l'abbiamo... però si vede la casa della signora Tomaello, vi basta?". L'applauso ammirato dell'elfa e mio arrivò immediatamente (replicato al momento di assaggiare le tagliatelle, davvero eccellenti) così come l'abbraccio ai due cuochi e la consapevolezza che da quel giorno in poi in Czech Republic una graziosa sfoglina di Brno avrebbe incominciato a produrre con metodo lasagne, fettuccine e tagliatelle in quantità industriale. Che in fondo fa piacere pensare, nel nostro piccolo, di essere stati dei promotori del made in Italy...