Sabato sera in albergo in montagna, il giorno prima della partenza. L’elfa ed io, seduti in veranda sotto una stellata memorabile eravamo intenti a scacciare le malinconie della vacanza quasi finita sorseggiando il caffè e le grappe del dopo cena e conversando amabilmente con due simpaticissime signore, casuali vicine di tavolino, una delle quali una volta appurato come fossimo veneziani anche noi (anche se sulla venezianità dell’elfa ci sarebbe da discutere) mi aveva raccontato di essere stata la proprietaria del bel negozio di biancheria che c’era tanti anni fa in Salizada San Lio, quello vicino all’orefice. Appena le avevo rivelato di essere nato e di aver vissuto per diverso tempo proprio dalle parti di campo San Lio e di ricordare benissimo il suo negozio, era accaduta una di quelle sorprese straordinarie che a volte ci riserva la vita. Infatti, la signora, dopo avermi scrutato per bene, aveva sorriso di colpo come se avesse trovato il ricordo che cercava dicendomi divertita: “Ah! Ma lei non sarà mica il figlio della signora Carla, la pittrice? " e dopo la mia risposta affermativa aveva subito proseguito: "Lo sa che la sua mamma era una mia cliente affezionata e veniva sempre a comperare i costumi da bagno da me? Era tanto simpatica, ma così esigente … mi faceva diventare matta, sa? C’era sempre qualcosa che non le andava e me ne faceva tirare fuori a decine, poi però me ne comperava anche due o tre assieme”.
Quell’ultimo dettaglio mi diede la conferma che si trattava proprio di quell’eccentrica spendacciona di mia madre e rese del tutto superflua l’ulteriore informazione che a volte veniva a fare acquisti anche con la fidanzatina di uno dei figli (che ero io). Mi era ben noto, infatti, che Donatella si era fatta un intero corredo di biancheria intima e costumi grazie alla propensione di mia madre - che l’adorava - a riempirla di regalini e quando quelle due uscivano a negozi assieme il nostro modesto conto in banca subiva dei veri e propri smottamenti. In tutto questo l’elfa mi osservava deliziata dal racconto e con l’aria di dire “Quindi, tua madre regalava allegramente costumi alle tue fidanzatine, mentre tu a me….”.
Ma non ebbi tempo di preoccuparmene perché la signora, dopo i rituali “Oh! Ma che divertente!” e “Ma tu guarda la combinazione!” e le previste considerazioni sulla piccolezza del mondo che ci aveva fatto incontrare tanti anni dopo in un piccolo albergo di Tambre, divenne subito preda della sindrome da rimembranze in stile “Carramba che sorpresa!” decidendo di dar fondo a tutta la sua indiscrezione.
“Lei dovrebbe essere il figlio chitarrista con i capelli lunghi. Quello che la faceva disperare con lo studio, giusto?”
“Temo di sì… sono il figlio lungocrinito, come mi definiva per distinguermi dall’altro di pelo corto”
La mia interlocutrice ridacchiò soddisfatta della mia ammissione.
La mia interlocutrice ridacchiò soddisfatta della mia ammissione.
“Allora, caro il mio signore, ora che ho capito chi ho di fronte non se ne stia lì così tranquillo perché adesso le farò andare la grappa di traverso. Guardi che io so tutto di lei… altarini compresi"
Piccoli paesini, grandi pettegolezzi |
Sentendo i propositi della signora l’elfa si era messa comoda sulla poltroncina e aveva assunto l’aria del “Questa proprio non me la perdo...” mentre io, pur essendo certo dei miei trascorsi di rettitudine, posavo il bicchiere sul tavolino per precauzione. Infatti, mia madre, che normalmente era una persona molto riservata, sulle mie vicende era un libro aperto forse perché, essendo io per carattere molto simile a lei, viveva la sfida di farmi crescere con particolare coinvolgimento e quando la deludevo se ne doleva molto e non lo nascondeva. Comunque, essendo curioso di scoprire se stava bluffando e cosa sapesse davvero di me invitai la signora a vuotare il sacco dei ricordi. Però, come quando vai a vedere il gioco dell’altro sicuro che non possa avere più di una doppia coppia e invece gli è entrato il full, non fu una buona idea perché mia madre a suo tempo doveva proprio essersi sfogata per bene con quella donna raccontandole che io ero lo sciagurato che tornava con il naso rotto dai cortei, la faceva stare in pena perché rientravo a notte fonda da chissà dove, frequentava chissà quale gente trinariciuta, pensava a tutto fuorché a studiare e dava tante amarezze a quella povera ragazza così di buona famiglia che l’accompagnava a comperare i costumi nel suo negozio.
Alla fine la signora, accorgendosi di avere esagerato un tantino, decise di lanciarmi un’ancora di salvezza “Però lei, almeno, era quello che giocava bene a bridge e faceva i tornei con la mamma, vero?”
“No, il figlio virtuoso era mio fratello. Mia madre ha cercato invano per anni di coinvolgermi con il bridge, tanto che alla fine per reazione ho iniziato a giocare a scacchi. Ai suoi occhi era uno dei miei peccati originali…”
L’imbarazzo crescente fu interrotto dal trillo una volta tanto salvifico del telefonino. Si trattava di un nostro amico veneziano che essendo a sua volta in vacanza con la moglie dalle nostre parti ci invitava a raggiungerli la mattina seguente per pranzare assieme in una malga sperduta tra i monti e i prati al confine tra il Cadore e la Val di Fassa che conoscevano loro e dove si degustavano vere prelibatezze locali per tacere dei formaggi d’alpeggio prodotti direttamente nella vicina casèra. Accettammo entusiasticamente anche perché, visto che il nostro programma per la domenica prevedeva solo il ritorno a Venezia, era l’occasione per regalarsi ancora qualche ora di montagna.
La malga introvabile che conoscono solo gli amici... e qualche altro migliaio di persone |
I nostri amici ci aspettavano verso mezzogiorno sulla porta del loro albergo e appena saliti in macchina ci diedero le istruzioni per raggiungere la malga che era all’inizio della Val Fredda e a cui si accedeva da una piccola strada sterrata andando verso il passo di San Pellegrino. Essendo uomo di mondo e sapendo come la montagna la domenica sia strapiena di gitanti m’informai subito se avessero prenotato e per che ora, ma mi venne risposto che quel locale lì lo conoscevano solo i pochi eletti che lo avevano scovato e non serviva prenotare. Infatti, appena arrivati sul posto fummo accolti da una lunga fila di auto parcheggiate sino a duecento metri di distanza dalla malga che appariva brulicante di eletti. Così fummo costretti a ripiegare in cerca di altre soluzioni iniziando, di locale in locale e di paese in paese, a collezionare tutta una serie di “Siamo al completo”, “Mi spiace, ma è tutto prenotato.” sino al classico: “Se volete aspettare… ma vi avverto che c’è almeno un’ ora di attesa…(che poi si raddoppia)”. Verso le due, discendendo in disordine e senza speranza le valli che avevamo risalito con orgogliosa sicurezza, facemmo l’ultimo disperato tentativo di mettere qualcosa sotto i denti a canale d'Agordo, un piccolo paesino lungo la strada tra Falcade e Cencenighe Agordino.
L’unico ristorante del luogo era un locale dall'aria anonima proprio nella piazzetta dove a fianco della chiesa e del campanile erano parcheggiati due autobus turistici e a giudicare dal vociare che ci giungeva da una delle finestre aperte non ci voleva molto a capire dove si stessero rifocillando i passeggeri. Però all'ingresso del locale faceva bella mostra di sé una lavagna con la scritta: “Oggi stracotto d’asino e polenta e finferli” e questo migliorò sensibilmente il mio umore, ma solo per pochi attimi perché prima ancora che potessimo varcare la soglia per chiedere se c’era posto giunse una cameriera per avvisarci che il cane non poteva entrare, ma che però, se volevamo, girando attorno all'edificio potevamo accomodarci sulla loro terrazza belvedere all'aperto che aveva un ingresso a parte e lì il cane ci poteva stare, purché al guinzaglio.
La terrazza era una sorta di grande ballatoio in legno che dava su un ruscelletto sottostante che dalla strada non si vedeva ed anche se l’unico panorama da “belvedere” era abbastanza modesto trattandosi della boscaglia sull’altra riva, sembrava abbastanza carina oltre che deserta. Prendemmo posto su uno dei tavoloni con le panche, sotto l’ombra di un paio di ombrelloni bianchi. Appena seduti, non ci fu neanche il tempo di chiederci “Chissà se qui fuori, con il ristorante pieno, si ricorderanno di noi? “ che giunse con apprezzabile solerzia la cameriera di prima per prepararci rapidamente il tavolo con delle tovagliette di carta e le posate avvolte nei tovaglioli. Appena terminato e prima di rientrare nel ristorante ci informò che l’elenco delle pizze era stampato sulle tovagliette e che tra un attimo sarebbe ritornata per le ordinazioni. Quattro paia di occhi (cinque con quelli del cane) la guardarono stupiti “Pizze? Ma noi non siamo qui per le pizze. Noi vorremmo…”
La ragazza c’interruppe subito con fare deciso.
“Qui in terrazza facciamo solo servizio pizzeria. Se volete pranzare con il menù del giorno dovete sedervi dentro, però vi ho già detto che il cane non ci può stare”. Detto questo rientrò nel locale, mentre il bretone assumeva l’aria mesta del colpevolizzato e tra di noi si apriva il dibattito sul da farsi. Alla fine la mia mozione d’ordine dal titolo “Alziamo i tacchi e lasciamo questo luogo gastronomicamente inospitale” fu messa in minoranza grazie all’azione disfattista delle signore felici di non dover fare un pasto completo e abituate a mangiare solo il centro della pizza perché il bordo è solo pane e fa ingrassare. In aggiunta a ciò il nostro amico avanzò la considerazione che ormai non aveva senso cercare altri ristoranti in zona con il rischio di trovarli strapieni e di arrivare all’ora di chiusura delle cucine. Di conseguenza il gruppo si rassegnò alle pizze. Tutti tranne uno, che appena la cameriera ebbe preso nota delle ordinazioni disse: “Io invece prenderò lo stracotto d’asino con la polenta. Ne avete ancora, vero?”
“Dovrebbero essercene ancora alcune porzioni, ma quello però, come ho detto prima, lo deve venire a mangiare dentro”
“Perché dentro?”
“Perché questa è la pizzeria, il ristorante è all’interno”
“Si ma la terrazza fa parte dello stesso locale e lei è la stessa cameriera che serve al ristorante. Perché non posso avere lo stracotto d’asino qui?”
La cameriera, una ragazzotta ben piantata, con i capelli raccolti a chignon e un allegro grembiulino a fiorellini che strideva con tutta quella fermezza, si mise le mani sui fianchi come per intimidire quel cliente così puntiglioso. “Perché questa è la pizzeria e serviamo solo pizze”
“Certo, la terrazza è l’area della pizzeria e quindi si servono pizze. Logica stringente. Ma mi faccia capire… lei non può oltrepassare la porta che separa la terrazza dal ristorante con un piatto di stracotto d’asino con la polenta?”
“No… a questi tavoli esterni possiamo servire solo pizze”
L'elfa, dopo avermi rifilato un calcetto negli stinchi sotto al tavolo sibilò "Avranno un problema di licenza. Non insistere e sbrigati ad ordinare..." ma ormai quella faccenda dello stracotto era diventata una sorta di sfida personale
“Ma se io le vengo incontro fin sulla soglia della porta del ristorante e lei mi passa il piatto di stracotto senza oltrepassarla, può essere la soluzione? Sarei io ad infrangere le regole, non lei ”.
“No, non si può….”
“Apprezzo la coerenza, ma davvero non esiste un modo per risolvere il problema?”
“Se vuole, visto che gli ho già portato il conto, tra due minuti si libera il tavolo vicino a questa finestra, così lei può sedersi lì, ordinare il menù del ristorante e continuare a parlare con i suoi amici sulla terrazza.”
Quella che ha già capito che tanto lo stracotto d'asino non lo mangerò... |
Presi quella proposta come una provocazione e stavo per replicare duramente, ma poi incrociai lo sguardo di Morena che era come quello di Orazio Nelson a Trafalgar un attimo prima di dire la frase: “L’ Inghilterra si aspetta che ognuno faccia il suo dovere” e mi fu subito chiaro che il mio dovere era quello di porre termine immediatamente a quella discussione che ritardava l’arrivo delle pizze di tutti. Quindi, non volendo irritare l’Inghilterra ed avendo una certa padronanza delle tecniche negoziali decisi di spiazzare quell'avversaria irriducibile cambiando improvvisamente l'obiettivo. Se non potevo raggiungere il miglior risultato possibile, cioè lo stracotto mangiato al tavolo in terrazza e non volendo ottenere il peggior risultato possibile, cioè il digiuno sdegnato e con le palle in giostra, potevo ricorrere allo “stile rapido” di Cristoforo Colombo e puntare con decisione al risultato realistico-accettabile. In fondo, se non potevo avere la flotta spagnola e un intero corpo di spedizione, piuttosto che essere cacciato a calci nel sedere dal palazzo reale potevo pur sempre scoprire l’America con tre piccole caravelle ed essere ugualmente soddisfatto.
“Allora rinuncio allo stracotto d’asino, anche perché immagino che a quest’ora è probabile che sia finito. Però, visto che siamo in montagna vorrei mangiare qualcosa di tipico e non una banale pizza da città. Ho visto che oggi avete anche i finferli con la polenta, ma pure quelli dovrei ordinarli al ristorante, giusto?”
“Sì…”
“Però, se rimango qui in terrazza posso ordinare una pizza ai funghi, vero?”
“Certo…è nel menù della pizzeria, abbiamo la funghi semplice e la prosciutto e funghi”
“Perfetto, ci siamo quasi… ora mi segua: i finferli cosa sono?”
“Beh… sono funghi…”
“Ottimo… allora mi porti una pizza con i finferli… abbondanti se possibile e senza prosciutto”
A quel punto i nostri amici e l’elfa seguirono entusiasti le mie orme cambiando le loro ordinazioni in favore della pizza con i finferli da me appena ideata.
Messa con le spalle al muro dalla mia logica stringente la cameriera, che almeno disponeva di un’etica sportiva, dovette cedere, ma giunta sulla soglia della porta che la riconduceva nel ristorante si girò per scagliare l’ultima freccia .
“Però qui non posso portarvi la polenta di contorno”.
“Sopravviveremo lo stesso…” fu la risposta corale.